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Quale cardiochirurgia senza ospedali?

21 novembre 2014 • senza categoria, curarsi 5743

Il nuovo Regolamento sull'accreditamento salva solamente le cardiochirurgie con almeno 200 interventi di bypass aortocoronarico annui e un tasso di mortalità inferiore al 4%. Ma la SICCH esprime parere contrario ed i dubbi sul criterio di riduzione crescono

A partire dal 1992 in Italia si è stabilito di concedere l’accreditamento ad un ospedale nel momento in cui siano presenti requisiti di qualità ulteriori rispetto a quelli necessari per esercitare l’attività sanitaria. Con l’accreditamento si certifica, quindi, che il  livello di qualità di un ospedale è almeno pari a quello che il Sistema Sanitario Nazionale garantisce per la tutela del bene salute.

Il nuovo Regolamento sull’accreditamento, approvato in Conferenza Stato Regioni il 5 Agosto scorso, nel ridefinire gli standard per l’accreditamento degli ospedali, sia pubblici che privati, inserisce un ulteriore criterio di qualità, basato questa volta sui volumi di attività realizzati dall’ospedale e sugli esiti delle cure erogate quali, ad esempio, la mortalità a 30 giorni dall’intervento o la presenza di complicanze successive.

Attribuire ad un ospedale un riconoscimento di qualità in base al numero di operazioni di bypass erogate all’anno è da sempre un argomento molto dibattuto. Affermare senza dubbi che ciò sia vero e fare di questa regola criterio selettivo degli ospedali da accreditare è una scelta che non poteva non suscitare forti reazioni nel mondo della cardiochirurgia e nella comunità scientifica.

In realtà è lo stesso Regolamento a riconoscere come la letteratura scientifica, ad oggi, non consenta di riconoscere in modo univoco che la competenza di un ospedale dipenda dai volumi di operazioni eseguite e che, quindi, in presenza di tali volumi si possano ravvisare sufficienti garanzie di efficacia e di sicurezza per il paziente cardiopatico. Il regolamento, però, ritiene che tali soglie possano essere utilizzate come criterio di selezione in un contesto di risorse limitate, come quello in cui si trova il nostro sistema sanitario. Dovendo, quindi, lo Stato ridurre l’assistenza a causa dell’esiguità delle casse pubbliche viene inserito un nuovo criterio di selezione degli ospedali basato sul numero delle operazioni compiute, nel tentativo di mantenere, simultaneamente, efficacia e appropriatezza delle cure.

Ma la misura tutela veramente la qualità delle cure?

Il Regolamento dichiara disponibili in letteratura prove convalidate, per alcune procedure chirurgiche, dell’associazione tra numero di procedure eseguite e miglioramento degli esiti delle cure. Per quel che qui interessa, tra tali procedure vengono citate l’angioplastica coronarica, il bypass aortocoronarico, la chirurgia dell’aneurisma dell’aorta addominale e la rivascolarizzazione degli arti inferiori.

Ma se la dottrina scientifica, a volte con timidezza a volte meno, afferma l’esistenza di un legame tra volumi e qualità delle cure, chi invece tali dubbi non ha mai smesso di nutrirli è la comunità dei cardiochirurghi italiani.

La Società Italiana di Chirurgia Cardiaca e Vascolare (SICCH), ente rappresentativo dei cardiochirurghi italiani, dichiara la propria posizione a riguardo in un essenziale ed esaustivo comunicato, qui riportato, nel quale vengono proposte le seguenti argomentazioni: dover conciliare l’assistenza con la cassa è necessario; abbassare i tassi di mortalità a seguito di operazioni cardiochirurgiche è doveroso; legare la performance di un ospedale al numero di bypass eseguiti è controverso ma, soprattutto, chiudere l’82% delle cardiochirurgie italiane è una follia.

La SICCH descrive come ad oggi, in Italia, siano presenti 92 strutture cardiochirurgiche e produce un elenco di quelle che verranno chiuse se al Regolamento verrà data continuità. Si tratta di ben 76 ospedali in cui figurano alcuni tra in nomi più prestigiosi nel panorama italiano ed europeo. Tra questi sono stati inseriti anche gli ospedali che, pur avendo un tasso di mortalità basso, ed al di sotto di quello indicato nel regolamento, non verrebbero comunque accreditati per mancanza del numero minimo di procedure di bypass: si tratta di ospedali importanti come, ad esempio, l’Ospedale Città di Lecce, il Centro Cardiologico Monzino ed il Giovanni Paolo II di Campobasso.

Dalle informazioni riportate nel documento della comunità dei cardiochirurghi si può desumere che l’utilizzo di un criterio controverso, come quello dei 200 bypass annui, se da una parte potrebbe spingere le strutture a pratiche opportunistiche, dall’altro, certamente, causerà un danno al patrimonio culturale medico-chirurgico di entità incalcolabile. La presenza delle 92 strutture cardiochirurgiche permette, infatti, la formazione di operatori nostrani e, in tal modo, garantisce la presenza sui territori di servizi e di attività un tempo reperibili solamente all’estero.

I pazienti ne gioveranno? Ad una prima analisi sembra che la risposta debba essere negativa. Di certo le risorse limitate impongono di fare scelte infelici ma non si deve commettere l’errore di danneggiare le parti migliori del nostro sistema sanitario, con il rischio di causare danni ancor peggiori. Una riduzione così massiccia di strutture cardiochirurgiche (oltre l’80%) porterebbe, infatti, ad una riduzione imponente di formazione in campo chirurgico oltre alla riduzione del numero di procedure disponibili. Nel lungo periodo queste condizioni aumenteranno le fughe dei professionisti, la penalizzazione dell’educazione universitaria, i costi per le trasferte dei pazienti e per la cronicizzazione di malattie non prontamente curate.

La SICCH propone un criterio alternativo e maggiormente efficace di quello proposto dai Ministeri, spostando l’attenzione dalle 200 operazioni di bypass eseguite ai 250-300 interventi in circolazione extracorporea. La circolazione extracorporea (CEC) è una tecnica con la quale si sostituiscono temporaneamente le funzioni del cuore e dei polmoni e che permettere l‘esecuzione delle così dette operazioni “a cuore aperto”. Si tratta, quindi, di un criterio che non riguarda solamente i casi di bypass aortocoronarico ma che ricomprende quasi la totalità degli interventi su cuore e sull’aorta. Per questo sarebbe capace di garantire una migliore valutazione di un ospedale sulle pratiche cardiochirurgiche, simultaneamente ad una riduzione della spesa ed al mantenimento di un accettabile livello di assistenza.

Al di là dell’autorevolezza della fonte, considerate le conseguenze molto significative a cui porterà un’applicazione senza modifiche del Regolamento, gli ammonimenti della SICCH vanno tenuti in doverosa considerazione. Alla luce della valutazione sul numero di ospedali che verrebbero chiusi, ed in ragione dei dubbi sulla compatibilità del metodo utilizzato, AIC Onlus ritiene che l’applicazione del Regolamento sugli standard debba essere sospesa e che lo stesso debba essere oggetto di una ulteriore analisi, da parte delle autorità competenti, con il supporto delle società che si occupano di ricerca scientifica e formazione dei cardiochirurghi.

 AIC Onlus

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